Gela: «Ho il coronavirus, vi racconto i miei giorni difficili. Il corpo brucia, e la tosse toglie il fiato. Ora sto bene»
di Redazione
È un nemico forte e invisibile, che ti colpisce quando meno te lo aspetti. Affonda il colpo nell’istante in cui sei vulnerabile, sfili un guanto magari a fine turno, stremato dopo dieci ore in reparto. Lo ha visto in faccia il virus, Nuzio Lo Chiano, 41 anni, di Gela. Una mattina ha sentito il fiato che mancata, mal di testa, la febbre alta. E ha capito. Lui fa il coordinatore infermieristico a Reggio Emilia, in una struttura sanitaria che il Covid 19 non ha certo risparmiato: 57 contagi in poche settimane.
Si è ammalato a lavoro, Nunzio. «La febbre alta, il corpo brucia. Ho avuto paura. Ma il desiderio di riabbracciare mio figlio mi ha aiutato».
Una vicenda toccante, la sua, fatta di giorni brutti. «La malattia che toglie il fiato, la tosse forte. Senti bruciare tutto dentro». E i giorni pesanti non sono del tutto alle spalle.
«Vivo da settimane isolato – racconta a Today 24 – e pure se non ho mai avuto bisogno di ricovero è stata dura ugualmente. Ora sto molto meglio. Ma è brutto ritrovarsi soli da un giorno all’altro, questa malattia ti isola, ti lascia con il vuoto attorno». Senza un contatto diretto con la moglie che può solo lasciarti il cibo a distanza. Senza più rivedere il figlio, che ha tre anni e mezzo, e al quale, dopo, dovrai spiegare il perché.
Adesso ha vinto la sua battaglia. Manca solo il secondo tampone. E ha deciso di raccontarla a Today24 (Stasera alle 20.45 l’intervista in streaming, sulla Home del sito e sulla pagina Facebook).
È un professionista coraggioso, Nunzio. Legato al lavoro e alla famiglia. Ma è soprattutto un uomo buono, sensibile. Per questo il suo sguardo si vela di emozione quando pensa ai suoi pazienti, a chi soffre in questo momento per la malattia.
«Il mio pensiero – dice – va ai malati, a chi muore negli ospedali, nelle strutture. L’ultima persona che vedono è il medico o l’infermiere. Non il familiare, per un ultimo abbraccio. Si ritrovano soli. Terribile».
Lui questo lavoro l’ha voluto e amato. L’Università, nella scuola infermieristica, poi l’impiego lontano da Gela, città alla quale è legatissimo e torna ogni estate.
Ma resta lì e non molla Nunzio, i suoi colleghi, i nostri eroi contemporanei. Che si battono ogni santo giorno nei Covid center. A Gela come a Reggio dell’Emilia. O lottano nelle loro strutture protette e nelle comunità assistite. Bardati per 7- 10 ore a turno, senza poter bere, né mangiare o andare in bagno. Con la tuta e i guanti, la cuffia e l’inseparabile mascherina, che ti lascia i segni. E non solo quelli. Basta una distrazione: sfili un guanto, involontariamente ti tocchi il viso o la bocca e il Covid 19 è là che ti aspetta.
«Ma non siamo eroi, ci tiene a dire… non siamo angeli». Solo operatori che si dedicano con professionalità e amore ai loro assistiti. In prima linea, con tutti i rischi. Anche quello di ammalarsi.
Perché fare il medico o l’infermiere non è un lavoro come gli altri, ma una missione. Una ragione di vita.
Che ti porta a vivere in trincea, a lottare contro un male vorace, impalpabile e spietato.
(Nella foto grande in alto e al centro dell’articolo, due immagini di Nunzio Lo Chiano. Più in basso l’infermiere gelese con i colleghi di lavoro, tutti con indosso i dispositivi di protezione).