Gela: l’orrore della Shoah. Il passato come chiave di lettura del presente e dell’uomo
di Desideria Sarcuno

Perché la guerra? Una domanda tanto semplice quanto complessa, che mise alla prova due delle personalità più influenti mai esistite: Einstein e Freud. Ne discussero in uno scambio epistolare nell’estate del 1932, proprio nel momento in cui, in Germania, il partito nazionalsocialista si affermava sulla scena.
Di lì a poco, la storia avrebbe scritto una delle sue pagine più tristi. Un momento storico, non troppo lontano da dimenticarsene, in cui la follia umana ha toccato il suo apice: ideando le camere a gas, concependo “la superiorità” della razza ariana, per non parlare degli esperimenti effettuati dai “medici” nazisti sui deportati ( molti dei quali erano bambini) e che conducevano, nella gran parte dei casi, al decesso.
A scuola impariamo che Aushwitz è sinonimo di orrore, disumanità, eppure, pensiamo si tratti di un capitolo chiuso. La sentiamo nominare in occasione di ricorrenze quando sui social si sprecano frasi quali «Per non dimenticare». La verità è che a volte ce ne dimentichiamo, basta accendere la tv per capirlo. I bambini, oggi, non muoiono nei lager ma sotto i bombardamenti; là fuori nel mondo si continua a dare scarsa importanza alla vita umana. La porta della storia non va chiusa definitivamente, ma riaperta, per ricordare a noi stessi che i diritti e le libertà di cui godiamo, sono fragili e rappresentano una conquista quotidiana, un lusso che in molti non hanno avuto. La libertà non è un valore assoluto, ma spesso la diamo per scontata. Abbiamo la possibilità di esprimerci in mille modi diversi e siamo fortunati per questo. Ecco perché rabbrividisce parlare di nazismo o “saluti romani” nel 2024.
Forse, abbiamo imparato poco o niente.
«Nelle guerre non ci sono n’è vincitori n’è vinti», dice Orazio di Giacomo al termine del suo spettacolo andato in scena al Teatro «Eschilo», nei giorni scorsi, dal titolo: “Shoah – Il viaggio del dolore, di cui è autore e regista. Un progetto audace, che porta in scena la tragedia dell’olocausto, con lo spirito di combattere l’indifferenza e indurre alla riflessione. La pièce è andata in scena nei giorni scorsi al Teatro «Eschilo».
L’idea prende vita nel 2016, sulle note di Vocalise di Lara Fabian. Poi diviene realtà attraverso il teatro.
«Il segreto è l’empatia, bisogna indossare le scarpe degli altri, immedesimarsi nel dolore. Il palcoscenico è emozione pura, è finzione ma mai falsità. Il teatro è, in una parola, libertà».
Di Giacomo, nutre grandi speranze per la nostra città, definendo l’arte come un’ancora di salvezza e non come strumento di divisone, in quanto essa unisce e mai divide.
«Ogni mio traguardo lo dedico alla mia famiglia, alla mia città e ai tanti giovani che desiderano intraprendere questa strada», conclude.
Il progetto viene portato in scena attraverso l’associazione «L’erba tinta di Gela», con un cast d’eccezione e la collaborazione dell’Accademy Crew di Giada Gentili.
Al centro della scena, la figura di Adolf Hitler, a cui dà voce l’attore e performer Stefano Rizzo.



«Interpretarlo – afferma – è stata una vera e propria sfida, data la complessità, anche psicologica del personaggio; ma un grande motivo di crescita artistica allo stesso tempo».
Per restituire quanto più fedelmente la figura del dittatore, molte scene vengono recitate in tedesco, riproducendo le movenze e le fattezze di un uomo senza scrupoli, vittima di sé stesso.
Al fianco del Führer, la compagna Eva Braun, alla quale presta il volto Giovanna Famà, e che è la personificazione della Germania nazista: appoggia Hitler in ogni sua scellerata decisione.
Protagonisti indiscussi i giovani, dai più grandi ai più piccoli, ognuno perfettamente al proprio posto.
«Abbiamo cercato di dar voce a quelle madri inermi, pervase dal dolore immenso che solo la perdita di un figlio può provocare. Donne che, da un giorno all’altro, hanno perso tutto», spiegano Giada Pistone e Adriana Cinardo, che sulla scena interpretano due madri ebree alle quali vengono uccisi brutalmente i figli nei campi di concentramento. Immagini strazianti, che lasciano con il fiato sospeso.

Un racconto che arriva dritto al cuore, attraverso la magia del teatro e della passione che muove gli attori, li nutre. Tra una battuta e l’altra, si respira la tensione e la paura del Terzo Reich. Potremmo tentare di rispondere alla domanda iniziale, dicendo che l’uomo è capace di amare, ma anche di distruggere. Il dramma di ogni guerra è: il potere o la coscienza? La stessa lotta interiore che vive il militare nazista Henry (interpretato da Biagio Pardo), diviso tra l’ubbidienza al regime o la morale. Si trova a un bivio: Uccidere o no un innocente. Sulla scena, vince la coscienza, pur di non spezzare una vita, il soldato sceglie la morte.
Un dramma che il professore racconta in un toccante monologo nel corso della piece teatrale.
«La fine di Hitler – commenta Pardo – è la fine del super uomo. Con lui termina la legge del più forte e vince l’uomo, che ammette la sconfitta. Infatti, si uccide perché si rende conto che per lui è finita».
«Di lui, resta solo la cenere».
(Le foto sono di Maria Rita Cavallo).
