Mazzarino come Gomorra: gli omicidi, le estorsioni. I medici indagati. E la coppia di Gela che reperiva la cocaina
di Redazione

ln un campo incolto di contrada Salamone un uomo, poco più che ventenne, è quasi svenuto per le botte. Un suo coetaneo lo sovrasta da dietro, gli ha già passato la garrota attorno al collo. Tira fino a levargli l’ultimo alito di vita, poi lo consegna ai compari affinché lo sotterrino in una buca. Mazzarino, 15 giugno 1984. Quello con un metro di terra sopra è Benedetto Bonaffini: aveva 23 anni. Era uscito di casa con cinquemila lire in tasca dicendo che andava al Bar Duemila. Poi vicino alla chiesa di San Domenico trova Salvatore Sanfilippo, che di anni ne ha 21. Sono amici fraterni ma il giovane boss sospetta l’altro di tradimento. «Siamo come frattelli, sì? Se io con te siamo come i fratelli e ti dico lo stesso, andiamo». Montano in moto. Sarà l’ultimo viaggio di Bonaffini, detto «Manomonca». Il suo carnefice, Sanfilippo, lo ritiene ormai un pericoloso rivale. Il «morto», si era vantato di voler eliminare alcuni membri della famiglia Sanfilippo. Sarà lui, invece, a cadere, strangolato nel buio di una campagna. Il contesto è quello degli Ottanta, agli albori della faida. E i conti, a quell’epoca, si regolano con feroci esecuzioni.
Sette anni dopo, scenario simile. Il carnefice è lo stesso: Sanfilippo. Stavolta a pagarla dev’essere Luigi «Tavuliddra» La Bella. Ha 28 anni, lo descrivono come assuntore di droga. Lo intercettano mentre se ne sta in giro in Vespa. Col pretesto di fumare uno spinello lo portano a casa di Sanfilippo. Sarà la sua fine. Lo torturano perché ritengono abbia fatto da vedetta in un duplice omicidio di due sodali del clan. Gli segano le dita delle mani per farlo confessare. Lui non parla e quelli passano alle orecchie e al naso. Poi lo finiscono. Sanfilippo ordina che sia gettato in un pozzo di contrada Montagna. È il 18 agosto 1991. Di lui non si saprà più nulla.
Sono gli anni in cui i Sanfilippo piantano definitivamente gli artigli sul territorio.
Emblematici i due casi di lupara bianca, ricostruiti dalla Dda di Caltanissetta e dai Carabinieri di Gela in quasi quattro anni di indagini. Dall’inchiesta «Chimera» emerge una Mazzarino soffocata dalla Stidda. Un mix che spaventa, un po’ Gomorra, un po’ Mafia Capitale. Dove nessuno sfugge alla legge del crimine organizzato. E le famiglie che contano hanno potere di vita e di morte. Dispongono di armi, smerciano un chilo di cocaina a settimana. E comandano tutto, anche i pascoli.
La droga.
Solo per dare l’idea del giro i carabinieri accertano che dal 10 agosto del 2018 ai primi di ottobre dello stesso anno i Sanfilippo muovano oltre 4 chili di cocaina. La droga arriva attraverso un corriere non identificato sull’asse Gela – Vibo Valentia. Per ogni panetto da un chilo il clan versa 38 mila euro: un giro di affari vertiginoso. Alla referente, Beatrice Medicea, moglie del boss, va una commissione del 10 per cento. E lei a mettere in contatto la coppia di Gela, Emanuele Brancato e Valentina Maniscalco, che acquista le partite di cocaina, con Silvano Mazzeo e Vincenza Galati, coniugi calabresi che la procurano. Tra cessioni di quantitativi più o meno ingenti i carabinieri accertano un centinaio di scambi, episodi di spaccio, incassi da parte del clan. Un affare di svariate migliaia di euro a settimana.

Le armi.
È un mini arsenale quello occultato in contrada Sophiana dai boss Sanfilippo. Qui, in un terreno nella loro disponibilità, vengono occultati almeno un fucile e un paio di pistole. Secondo l’accusa sono a vario titolo 9 le persone coinvolte nella tenuta del mini arsenale: Marcello, Liborio, Andrea e Giuseppe Sanfilippo, Rosangela Farchica, Beatrice Medicea, Calogero (’78), Paolo e Calogero (’91) Sanfilippo. Dalle indagini emergono almeno altri 6 capi d’accusa in materia di armi: un fucile sovrapposto con matricola abrasa; una pistola semiauto; un fucile e una pistola. Il gruppo dispone di armi e munizioni e di un mini esercito di sodali pronto, se necessario, a scatenare una guerra.
I medici indagati.
Tre i medici toccati dall’inchiesta dei carabinieri. Due hanno sottoscritto certificati o ricette per farmaci a favore di sodali o presunti tali. Un terzo, dipendente Asp, è accusato di aver sottratto temporaneamente apparecchiature mediche dall’ospedale per un esame a uno dei Sanfilippo. E poi di averle subito restituite. È indagato solo per peculato d’uso.
Le estorsioni.
Nessuno può sfuggire alla legge del pizzo, tutti devono pagare o dare qualcosa al clan. Sono almeno 6 gli episodi ricostruiti dai carabinieri. C’è una ditta di materiale idrico sanitario alla quale i boss fanno la cresta da anni. Nel capo d’accusa si ipotizza una somma di 10 mila euro, poi scontata a 5 mila, da pagare in due rate, a giugno e a dicembre. L’accusa ritiene che i primi pagamenti comincino nel lontano 1989 e avvengano anche in epoca molto recente.
Ammonta invece a 20 mila euro l’estorsione a cui viene costretto il titolare di una nota catena di supermercati.
Poi ci sono le tentate estorsioni al titolare di un deposito di autodemolizioni della zona. A una ditta incaricata di eseguire lavori di ristrutturazione al municipio. A un noto bar del centro, a una pescheria. Perfino a un barbiere, costretto a fare tagli gratis e trattamenti ai vari sodali. Accadde, nell’estate di tre anni fa, che il padre dei titolare del negozio, osi sollecitare il pagamento (anche parziale) del lungo conto in sospeso. Al salone si presentarono Maria e Paolo Sanfilippo. Al termine della spedizione punitiva il barbiere viene messo in riga. E tanto per rincarare la dose Paolo Sanfilippo gli sferra un pugno da ko, lasciandolo tramortito e con il sangue alle orecchie. Questo il clima di terrore, la cappa che aleggia.
La guerra dei pascoli.
Capovolgendo gli addenti la somma non cambia. E così, nel finale, ripeschiamo l’inizio dell’indagine. Lo «start»; che arriva nel 2017, un dispaccio del comando centrale tutela alimentare dei Carabinieri in merito a flussi anomali di richieste di contributi agricoli. I militari del Reparto territoriale di Gela ipotizzano una trama in stile mafia dei Nebrodi. In realtà dietro quegli anomali accaparramenti di terreni si insinua dell’altro: una guerra per il dominio dei pascoli. Le indagini fanno emergere molto presto un sistema di violenze e minacce per la supremazia sul territorio, al quale non sfuggono braccianti, costretti a lasciar distruggere il raccolto dalle pecore o peggio a rinunciare a nuove coltivazioni, per favorire il pascolo del gregge delle famiglie legate ai Sanfilippo; altri pastori, vittime di minacce e bastonate se solo osano opporsi al gruppo dei Sanfilippo. C’è perfino un noto imprenditore costretto a scansarsi. Le pecore hanno la precedenza. Anche rispetto ai cereali della sua rinomata azienda. Insomma, è terra bruciata là dove passano i boss.
